Racconti di miniera - Il Campanile Enna

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Racconti di miniera

I luoghi della memoria > Civiltà mineraria

Racconti di miniera          
di Pino Vicari

Dedicato a mio padre ed a quanti nelle vecchie miniere di zolfo vi passarono la loro giovinezza.



I fatti descritti in questo racconto, sono avvenuti nel 1932 alla miniera Grottacalda, una delle più grandi e pericolose miniere della Sicilia.
Era gestita dal Gruppo Montecatini ed era talmente importante che nel 1936  in occasione della venuta di Mussolini in Sicilia, fu l’unica miniera ad essere visitata. Trovarono lavoro più di 1500 operai dei tre comuni minerari; Enna, Valguarnera, Piazza Armerina. Era un grande polmone economico per una provincia depressa come quella di Enna.
I fatti raccontatemi  da mia padre, Vincenzo Vicari, 52 anni di lavoro nelle varie miniere, da “carusu" (8 anni) a “picconiere”  furono da me pubblicati nel 1950 sul settimanale del P.C.I.  “Il siciliano nuovo”, sotto forma di racconto. Non ho voluto correggere o modificare niente, lasciando le cose scritte come 34 anni fa quando io ero giovane e le lotte dei minatori scuotevano la Sicilia.

Molto tempo è passato, gli zolfatari raggiunsero molti traguardi, i padroni delle miniere furono cacciati via, venne costituito un Ente regionale pubblico “E.M.S.” . Migliorarono le leggi previdenziali, i nuovi minatori non hanno pensioni da fame, ma le miniere di zolfo si stanno chiudendo ed una pagina della nostra storia, della storia della Sicilia che lavorava nelle viscere della terra sta per chiudersi, con dolore, con amarezza e rabbia dei siciliani.



Questo racconto un fatto realmente accaduto, lo pubblico io, figlio di minatore, per onorare la memoria di mio padre e per ricordare la memoria di tanti, molti , vecchi e giovani zolfatari che ho conosciuto durante la mia attività politica e sindacale bei lunghi anni di lotta, nelle miniere, quando la lotta per la vita era polvere di zolfo e pane duro.


Pino Vicari



LUTTO ALLA ZOLFARA

È crollata la miniera, sono morti tutti. Questa la voce che si propagò come un fulmine in mezzo ai quartieri popolari della cittadina di Enna.
Donne che si affacciavano alla porta, le finestre e i balconi pieni di donne e di bambini. Cosa è successo? Com'è stato? Quanti sono i morti?
Queste frasi volavano da porta in porta da finestra a finestra. Sono morti tutti, è crollata la miniera, diceva qualcuno.






Era il Venerdì e come di consueto la maggioranza delle famiglie operaie avevano impastato il pane e si apprestavano ad infornarlo.
Era una giornata nebbiosa, come sono quasi tutti i giorni dell'inverno ad Enna. Era il gennaio del 1932. Le donne incominciavano a riversarsi nelle vie, i bambini uscivano da casa, con il berretto di lana sulla testa gridando, non si capiva ancora cosa era accaduto e cosa si doveva fare. Mille proposte, mille decisioni, ma nessuno si muoveva. Alle lacrime di molte madri fecero seguito quello dei bambini che incominciavano a gridare, Papà! Tutto il paese era in movimento, nessuno badò al pane che doveva essere infornato. Chi piangeva, chi gridava. Ad un tratto una donna gridò: Partiamo tutti, andiamo alla Miniera.

Fu un attimo, da tutti i quartieri partirono colonne di donne con i loro bambini in braccio, i capelli sciolti bagnati dalla nebbia umida ennese, era un popolo che si muoveva verso la miniera.
Per recarsi alla miniera Grottacalda bisognava percorrere 29 chilometri, ma la distanza non impressionò le donne, le madri, le spose, i figli piccoli che erano portati in braccio e quelli che camminavano attaccati alle vesti.
Era una grande massa di donne, circa 300. Colonna di dolore, mogli di zolfatari che correvano, sferzate dalla nebbia e dal vento, dal freddo e dal dolore.



Marciavano silenziose, con il respiro grosso, con le lacrime che scendevano sul viso patito, sofferente delle famiglie dei lavoratori. Passarono dal Lago Pergusa, qualcuna gridò: Se i nostri mariti sono morti ci getteremo nel Lago. Maledetti i ricchi, quelli non lavorano nelle zolfare, quelli non muoiono schiacciati. Queste le frasi che dicevano ogni tanto le donne tra un singhiozzo e l'altro.
Dopo Pergusa la colonna lasciò lo stradale per prendere l'accorciatoio, scendevano per il vallone "Scavo", volevano arrivare prima.
Qualcuna era scalza, aveva perduto le scarpe, altre le avevano rotte ed avevano i piedi di fuori, altre ancora li portavano nelle mani per far più presto. Non si stancavano, il petto andava su e giù come un mantice, i capelli appiccicati alla fronte, dal sudore e dalla nebbia, ma andavano avanti, volevano arrivare, volevano vedere.

Quelle povere mogli di zolfatari, quelle povere madri che si vedevano con il figlio con lo sposo solo un giorno la settimana e quando il Lunedi partivano era come se partissero per la guerra, non si sapeva se sarebbero ritornati, non si sapeva se si "scacciavano". Passarono il torrente, si buttarono con le gambe in mezzo all'acqua ed iniziarono a salire per raggiungere la collina da dove si vedeva la zolfara.
Ormai solo pochi chilometri separavano la colonna dalla zolfara, bastava arrivare alla collina di Pietragrossa per vederla. Più si accorciava la distanza, più acceleravano il passo le donne. Erano grida strazianti, non se ne poteva più. Una donna anziana gridò: "figlio mio dove sei" fu un coro generale, grida, lamenti. Avrebbero pianto anche le pietre.
I bambini sentirono piangere le proprie madri e si misero a piangere anche loro. Camminavano da tre ore, non si erano riposati per niente, erano forti quelle vecchiette, quelle spose, tutte quelle donne erano forti, acceleravano il passo in salita, il lamento continuo sembrava accompagnare i passi di quei piedi scalzi. Erano vicini alla cima della collina, si aiutavano con le mani, scivolavano, si alzavano, stava per far buio, dovevano far presto. Non fosse mai accaduto.


Appena si videro i primi "calcheroni" che fumavano, si udiva il sordo rumorio dei carrelli che scivolavano sui binari, si videro le prime case, fu uno scoppio di grida, di pianti. Dalla cima della collina guardarono, poi giù di corsa. Non vedevano gli sterpi, i rovi che strappavano loro le vesti, niente poteva fermarli. La marcia si trasformò in corsa.
Tutti correvano verso la zolfara, ognuno voleva arrivare prima per sapere, per conoscere.
Gli zolfatari lavoravano. I vagonari spingevano i carrelli, i capi squadra segnavano i vagoni di zolfo che uscivano dal pozzo. Proprio in quel momento, alle 16,30 usciva una "sciorta" dalle gallerie perché era terminato il turno.



Quegli zolfatari con i fazzoletti legati alla testa, con l'acetilena nelle mani, con il viso pieno di polvere, non poterono credere ai propri occhi, guardarono, videro quella massa di donne che scendeva correndo dalla collina che sovrastava la miniera Grottacalda. Si guardarono in viso, senza che nessuno dicesse niente buttarono a terra le acetilene e si misero a correre incontro alle donne.
Era una scena indescrivibile, vagonari, capi squadra, scaricatori, tutti correvano, avevano ognuno un triste presentimento. Cosa è successo? Sono le nostre donne. Le donne si accorsero che gli uomini correvano verso di loro e non si fermarono, stordite dal freddo, dalla stanchezza, non capivano niente.


Vicino a dei "calcheroni" che fumavano avvenne l'incontro, fu un attimo, senza che nessuno dicesse niente si abbracciavano, si baciavano. In mezzo al fumo acre dello zolfo che li faceva tossire si fecero le prime domande! Cosa è successo? Cosa siete venute a fare? Che cosa succede al paese? Fu un attimo. Ma come, non è successo niente alla zolfara? Non è morto nessuno? E mio figlio, e mio marito dov'è.?
Si guardarono in faccia gli zolfatari. Qui non è successo nulla, dopo i due zolfatari che perirono in seguito allo scoppio della mina 15 giorni fa non è successo più niente. Allora siete tutti vivi? Ma certo, dissero gli zolfatari, se non è successo niente !
Tutti si incamminarono verso le case, se così si potevano chiamare, catapecchie di pietra e tegole, vecchi "calcheroni" trasformati in abitazioni, vecchi buchi ove dormivano 8 o 10 zolfatari.
La sirena suonò, si fece smettere il lavoro nelle gallerie, i minatori venivano fuori, si abbracciavano le mamme con i figli, le spose con i mariti.


Qualcuno chiese che spiegassero cosa era successo. Ci hanno detto che la miniera era crollata e che eravate rimasti tutti dentro la miniera. Allora siamo partiti, abbiamo lasciato il pane sul letto, il forno accesso e abbiamo camminato per 4 ore ed eccoci quì. Ma chi ha detto che ci eravamo tutti "schiacciati"? L'hanno detto in paese, l'hanno sentito tutti. Gli zolfatari non fecero più domande. Le donne si divisero nelle case a gruppi con i propri mariti, gli zolfatari accesero il fuoco perché le donne si asciugassero le vesti bagnate e si riscaldassero un poco. Il direttore della miniera s'informò su cosa era accaduto, così pure il maresciallo dei carabinieri. Tutti i minatori erano nelle case, nessuno lavorava, la miniera cadde nel silenzio, non si sentiva il vagoncino scivolare sulle rotaie, la macchina del pozzo che tirava su lo zolfo. Tutto era calmo. La miniera era piombata nel silenzio.


Nelle catapecchie gli zolfatari con le donne accanto al fuoco, con i bambini sulle ginocchia, parlavano. Diedero da mangiare alle loro donne che non avevano mangiato il mezzogiorno. Mangiarono il pane duro con della cipolla o con del formaggio, bevvero un sorso di vino, non potevano riposare, si era troppo stretti non vi era spazio per tutti in quei buchi. La notte passò senza che nessuno potesse dormire parlarono tutta la notte, parlarono della zolfara ove lavoravano più di 1500 operai, dava lavoro agli zolfatari di tre paesi: Enna - Piazza Armerina - Valguarnera, dei sacrifici, del grisù che mieteva continuamente vittime, degli zolfatari periti, sfilavano ad uno ad uno, le famiglie dei caduti languivano nella miseria, la ditta Montecatini aumentava i propri guadagni. Noi dobbiamo vivere in mezzo le cimici, riposare sulle tavole, lavorare continuamente in mezzo la morte e si guadagnava a stento per mangiare.



Da 30 anni lavoro nella miniera e non sono riuscito a costruirmi una casetta, loro si costruiscono i palazzi con il nostro sudore, con la nostra vita. Questi i discorsi dei minatori. Un vecchio minatore disse : figlioli, da 38 anni lavoro in questa miniera, da 38 anni vivo in un vecchio calcherone, getto sangue nelle gallerie in mezzo al fumo e al gas e credete, domani mi butteranno via, chi si ricorderà più che io come tanti altri vecchi zolfatari abbiamo fatto guadagnare un sacco di milioni alla Montecatini?


All'indomani non si lavorò, tutti partirono per il paese, rifecero la stessa strada abbracciati, all'entrata del paese tutto il popolo era ad attenderli. Abbracci, calorose strette di mano. Dopo giorni si seppe dell'equivoco. Dato che da diverso tempo si susseguivano ininterrottamente disgrazie nelle miniere, nel paese vi era un'atmosfera di preoccupazione, la tensione era arrivata a tal punto che bastò che un'irresponsabile spargesse la voce in un quartiere che era crollata la miniera perché si verificasse quello che si era verificato.
Questo fatto si racconta sempre, si racconta pure quello che disse il vecchio minatore.

Nel 1943, quando entrarono gli americani in Sicilia, la Montecatini infischiandosene dei duri anni di sacrificio fatti dai minatori che avevano costruito e ingrandita la miniera, morto su morto, sudore su sudore, gettarono nella miseria 2000 famiglie di minatori lasciando che una delle più grandi miniere della Sicilia si allagasse.
Una dura lotta fu condotta dai minatori per non fare smobilitare la miniera. La Commissione Interna l'Organizzazione Sindacale della miniera lottarono per impedire che venissero portate via le macchine ma la Montecatini, lasciò che le macchine venissero coperte dalle acque e si allagassero le gallerie non permettendo che i minatori mettessero in produzione la "loro miniera".



Gli zolfatari oggi lottano e non permetteranno più che le famiglie dei caduti, vittime del lavoro, restino in mezzo alla miseria, non permetteranno più che il vecchio zolfataro dopo aver lavorato 40-50 anni nelle viscere della terra abbia una pensione di fame e debba domandare l'elemosina davanti le chiese, che la nostra economia venga sacrificata, distrutta per favorire i monopoli, tutto questo deve finire lo hanno detto le donne della "triste marcia" lo hanno detto gli zolfatari.
In questi giorni in tutte le miniere vengono votate mozioni per la Pace che così concludono: "Abbastanza vittime, abbastanza lutti, abbastanza orfani avete creato con le vostre sporche guerre. Ora basta, è ora di finirla e noi ve la faremo finire".

Nota dell'autore:

Purtroppo, negli anni 70, le miniere siciliane vennero chiuse, perché lo zolfo non era più remunerativo è l'anidride solforosa veniva estratta dal petrolio e da altri derivati. Negli ex comuni minerari, i superstiti delle miniere, l'ultima generazione di zolfatai, hanno la pensione INPS e percepiscono l'indennità di malattia professionale INAIL, piccoli paesi che vivono, ancora oggi, su questa rendita pensionistica degli ultimi minatori.
Le miniere di zolfo, dopo tanti secoli si sono chiuse, i ruderi stanno scomparendo, gli ultimi vecchi minatori sono "in esaurimento" il rischio che scompaia una civiltà mineraria secolare e reale.
Spetta alle nuove generazioni fare in modo che ciò non avvenga, e che si conservi la memoria storica.

CIVILTÀ

Quannu l'autri Carusi amminzigghiati

vannu a la scola senza studiari,

iddu abbuscannu cauci e gargiati

già travagghiava intra li surfari.


Ittatu sutta terra criaturi

nun appi di lu suli la carizza

nun  canusciu la parola amuri

e si nutria di pani e d'amarizza.


E nun nisciu cchiù di la surfara.

Ristò com'un briganti cunnannatu

ppi tanto tempu a dda vitazza amara,

finu ca vecchio, stancu, già malatu

li sò patruna lu jttarru fora.


Oggi assittatu supra lu scaluni

davanti di nà chiesa suffri ancora:

stenni la manu e fà. l'addumannuni!


Poesia pubblicata nel volume del Prof. Alfredo Rutella "Confidenza" nell'anno 1950.




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