Stemma di Enna, di Rocco Lombardo - Il Campanile Enna

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Stemma di Enna, di Rocco Lombardo

Araldica

STEMMA della Città di ENNA
di Rocco Lombardo


(Articolo pubblicato sul giornale "La Sicilia" il 14 settembre 2010 nel paginone dedicato alla serie "Gli stemmi dei capoluoghi siciliani")



"E’ lu so’ stemma di biddizza vaga:
casteddu cu li spichi ntra tri turri".

Con questi versi encomiastici, in sintonia con la vena celebrativa che pervade i due tomi della sua Storia veridica della Inespugnabile Città di Enna e delle sue antichità etc…, custoditi manoscritti nella biblioteca comunale cittadina, padre Giovanni, settecentesco frate cappuccino, inneggia a quello che egli definisce "stemma illustrissimo della Città", l’allora più comunemente nota Castrogiovanni che gli aveva dato i natali i.
E nel descriverlo col tipico stile ampolloso dell’epoca, ne dissemina numerose immagini, delineate a china con ingenua amorevolezza, tra i fogli ingialliti, divenuti ben presto, per la dovizia di informazioni che l’accompagnano, una preziosa e insostituibile fonte di notizie per i successivi studiosi. Non solo locali, se in quello stesso torno d’anni sembrano ispirarsi a lui tanto l’abate catanese Vito Maria Amico nel suo Lexicon topographicum siculum, tradotto un secolo dopo da Giocacchino Di Marzo, quando afferma, fra l’altro, che di Enna "lo stemma è una rocca dalla cui sommità escono tre spiche", quanto, meno succintamente, il palermitano Francesco Maria Emmanuele e Gaetani, marchese di Villabianca, quando nella sua Sicilia Nobile scrive che la Città "tiene titolo d’Inespugnabile e nel blasone fa vedere un’aquila con due teste coronate, carica nel petto di un Castello a tre torri ed in ogni torre una spiga di grano".
Questi due autori non si servono di un linguaggio araldico rigorosamente pertinente, come succederà del resto a tanti scrittori fino all’Ottocento inoltrato, quando la materia, in genere dilettevole argomento di testi divulgativi,  non solo diventerà competenza  riservata ad appositi Enti (variamente denominati nel tempo Consulta Araldica, Ufficio Araldico, Dipartimento del Cerimoniale di Stato, Ufficio Onorificenze…) ma  sarà studiata da specifici trattatisti, tra cui si distinse Antonio Manno, ispiratore del codice approvato col decreto 13 aprile 1905 n. 234, passato alla storia col suo nome e divenuto ineludibile fonte di conoscenza della legislazione passata. Ma pure punto di sicuro riferimento per quella successiva, in epoca monarchica ovviamente più copiosa e soggetta a continui aggiornamenti, divenuti indispensabili e drastici in tempi recenti, quando la Repubblica divenne la forma istituzionale dello Stato italiano, spazzando via pressoché completamente un mondo secolare di titoli, blasoni, stemmi e concessioni, e creandone uno nuovo, quasi in omaggio alla tacita norma gattopardesca del "cambiare tutto per lasciare tutto com’è".
Il frate cappuccino ennese, lo storiografo catanese, l’erudito palermitano e gli innumerevoli altri studiosi a loro coevi o successivi, non erano fra i primi a soffermarsi sullo stemma civico di Castrogiovanni, come  gli Arabi dal momento della loro conquista chiamarono Enna, riappropriatasi dell’antico nome solo nel 1927, perché sul finire del ‘500 vi aveva accennato l’umanista netino Vincenzo Littara mentre attendeva alla stesura della Historia Hennesis  i. Compilata in due libri, gli fu commissionata dai Giurati della Città, tra cui primeggiava il barone Vincenzo Petroso di Pollicarini, desideroso di far esaltare dall’illustre autore della Storia di Noto, in una gara campanilistica che da allora, e ancora per molto, appassionava e logorava ogni centro isolano, le peculiarità ennesi, destinate però alla conoscenza di una ristretta cerchia di appassionati a causa della loro forma manoscritta, intralcio ad un’ampia circolazione perdurato, nocivo alla divulgazione dei meriti della Città, fino alla sospirata edizione a stampa,  avvenuta nel 2002 per le cure di Valentina Vigiano i. Il Littara, seguendo una nostra traduzione, afferma che
"Dalla stessa Dea [Cerere] sin dall’antichità furono desunte le insegne della Città, perchè per ingiustizia del tempo malvagio l’oblio non distruggesse il ricordo di quella antichissima e benefica Regina: questi simboli consistono in Cerere alla base della fortezza difesa da tre torri (dalle quali sono indicate le tre parti dell’Isola); in cima a queste si erge l’Immagine della gloriosa Vergine, affinché, come una volta, per testimonianza del poeta Callimaco e di altri, Enna era detta sacra a Cerere, ora essa, destinata a miglior condizione avendo accolto la Religione di Cristo, si mostri dedicata alla Vergine Madre di Dio. Benchè in seguito, quando si doveva contrassegnare qualcosa a fini pubblici, per economia di mezzi
, [gli ennesi] abbiano omesso la figura di Cerere, ciò nondimeno in altri casi si servono di corona di spighe intrecciate.
L’Immagine della Madonna, inoltre, si crede sia stata posta sopra il castello per volontà della regina Eleonora che fece innalzare e consacrare il massimo tempio della città col titolo di Maria Vergine delle Grazie".
Lo stesso destino di scarsa divulgazione toccò al testo del paolotto ennese padre Vincenzo Lo Menzo che nel 1813 fu sul punto di stampare presso Barravecchia a Palermo la sua Descrizione storico-topografica della Regia Città di Castrogiovanni detta nell’antichità la Città di Enna nel Regno di Sicilia, giuntaci manoscritta con tanto di dedica a Lord Bentinck, "Ministro Plenipotenziariotro di S.M. Britannica presso il Re delle Due Sicilie", come sta scritto con elegante grafia sul semplice frontespizio. v
.
Il brano che ci riguarda è interessante perché testimonia le novità interpretative che nel tempo via via si sono sedimentate sugli elementi dello stemma civico ennese che – ci informa il frate -  
" è un’Aquila con due teste coronate, in petto della quale vi è una fortezza a guisa d’un gran Bastione, con tre grosse Torri, due eguali e quella di mezzo più alta, dalla sommità della quale escono tre ben grosse spighe di Frumento, e l’Aquila che tiene con i suoi artigli la seguente iscrizione: Inexpugnabilis Urbs Enna".
Il Lo Menzo fa seguire a questa descrizione considerazioni ingenue e fantasiose, tra cui l’attribuzione dell’aquila nientemeno che a Giulio Cesare, giocando sull’equivoco, forse ricercato per i soliti intenti campanilistici, che Federico II, ammiratore del grande personaggio romano e dei suoi successori,  si fregiava del titolo di "Augustus". Del resto anche i sovrani di Germania e di Russia si riallacciavano a Cesare denominandosi "Kaiser" e "Zar" e sfoggiando come emblema l’aquila, monocipite il tedesco e bicipite il russo. Ci penseranno studiosi più obiettivi a ricondurre correttamente l’aquila dello stemma ennese a Federico II di Svevia, raffigurata sempre bicefala a ricordare l’aspirazione, mai sopita e mai soddisfatta, dello Svevo a insignorirsi pure pure dell’Impero d’Oriente. Studiosi che si soffermeranno altresì sui motivi che hanno portato ad una differenziazione tra lo stemma descrittoci dal Littara e quello pervenutoci, già ai tempi del Lo Menzo ben consolidato nel suo schema generale, a riprova che il suo iter iconografico era ormai concluso. Ce lo confermano le sue tante raffigurazioni contenute in opere di pittura, scultura e perfino di argenteria sacra già realizzate, divenute modelli per quelli da eseguire negli anni successivi. Sparse nei luoghi pubblici più significativi per importanza e visibilità, ostentavano orgogliosamente il blasone civico a dimostrazione che esso ormai rappresentava l’identità cittadina. Se ne scoprono numerosi casi: apposto su un parapetto degli ottocenteschi lavatoi pubblici di Papardura; realizzato in stucco o in marmo fra le decorazioni barocche di alcune chiese; montato sul puntale dell’asta dei Confrati della Madonna di Valverde, ritenuta la prima Patrona della Città; dipinto su una tela, risalente al Settecento, conservata nella Biblioteca comunale; disegnato a china in vari fogli della citata opera di frate Giovanni cappuccino; inserito a colori nel prezioso plurisecolare "Libro dei Privilegi di Enna", noto pure come  Libro delle Consuetudini o Libro Rosso. E, per citare modelli di più recente esecuzione, lo vediamo realizzato a mosaico sulla parete di fondo della civica Sala Cerere o ad intarsio marmoreo in un vano d’ingresso del Palazzo Chiramonte che la ospita, nonché  graffito su numerose ante vitree sparse nel Palazzo Municipale, dove l’altero titolo di Inexpugnabilis appare, purtroppo, deformato da una storpiatura in "Inespugnablis", che tuttavia non consente alla banale svista di scalfirne l’illustre origine. E ancora, senza peraltro esaurire la serie degli esempi più vistosi, appare raffigurato nell’androne dell’ottocentesco Teatro Garibaldi, a sancirne orgogliosamente l’appartenenza al Comune, e, sprovvisto ovviamente di questa connotazione,  perfino cesellato su candelabri, reliquari e ostensori d’argento, tra cui quello architettonico maestoso di Paolo Gili della prima metà del Cinquecento,  o segnato su altri oggetti d’arte, tutti conservati nel Tesoro del Duomo. In questo tempio, anzi, lo stemma ricorre spesso in altri manufatti, tra cui i decori barocchi esistenti nella Cappella della Madonna, gli adorni di un grandioso altare collocato nel transetto, le ornatissime tardocinquecentesche colonne di Giandomenico Gagini, spesso affiancato al blasone distintivo della Chiesa Madre. Questo, a sua volta, esibisce le tre torri sovrastate dall’immagine della Madonna ma oblitera, opportunamente, il tipico motto evocante l’inespugnabilità del sito cittadino, desunto dall’opera storica del  latino Tito Livio e concesso dall’Imperatore svevo, notoriamente estimatore della "romanità", quando nel 1240 nel "Colloquium Generale" tenuto a Foggia attribuì alle città siciliane dichiarate demaniali o regie un proprio titolo onorifico. Su questi dettagli diversificativi, già nebulosamente presenti nello scritto del Littara, e sulla presenza dell’aquila bicipite pochi anni or sono ci hanno dato illuminanti ragguagli le docenti universitarie Claudia Guastella v, che ha analizzato acutamente i significati dei due simboli in uso al tempo del dotto netino, e Maria Concetta Di Natale  v, che ha evidenziato con opportuna chiarezza l’importanza laica del  particolare dell’aquila bicipite presente nel candeliere argenteo di Nibilio Gagini del 1596 e quella religiosa dell’immagine della Vergine sovrastante il castello turrito, ricorrente soprattutto nelle opere di poco precedenti dell’orafo Scipione di Blasi.

Sullo stemma civico, intanto si erano soffermati alcuni studiosi locali, a fine Ottocento Paolo Vetri  v e  nel 1909 Ettore Liborio Falautano,
che chiude la sua monografia su Castrogiovanni x descrivendone lo Stemma Municipale con queste parole:

"Castrogiovanni spiega per arme:
"Di verde, al castello di tre torri merlate alla ghibellina, quella di mezzo cimata da tre spighe di frumento, il tutto d’oro.
Lo scudo accollato da un’aquila bicipite, al volo abbassato, di nero, membrata d’oro, linguata ed armata di rosso, coronata d’oro all’antica in ambo le teste
".

Il Vetri, oltre a parlarne più volte nelle sue due opere storiche principali, nel 1978 ristampate riunite come Storia di Enna, gli dedica addirittura un apposito saggio dal titolo L’arma della Città di Castrogiovanni, apparso nel 1888 sul pisano Giornale araldico-genealogico-diplomatico. Sulle pagine di questo prestigioso periodico, guidato dall’insigne araldista Giovan Battista di Crollalanza, ideatore nel 1878 dell’Annuario della nobiltà Italiana ed autore del Dizionario storico-blasonico delle famiglie nobili e notabili italiane, dato alle stampe in tre volumi nel 1886, compare, in apposita nota curata dalla Direzione a esplicitazione del testo impostato dal Vetri col suo solito piglio a carattere storico-divulgativo,  questa descrizione dello stemma ennese,           accuratamente tecnica:
" [Lo stemma di Castrogiovanni] Araldicamente si blasona così: D’azzurro, ad una torre d’argento torricellata di tre pezzi, dai quali emergono altrettante spighe d’oro, piantata sopra una roccia al naturale, movente dalla punta. Lo scudo accollato da un’aquila bicipite di nero, linguata e membrata di rosso, e coronata all’imperiale in ambedue le teste".
Siffatta blasonatura, come si evince dal testo del Falautano già citato, pare non abbia influenzato gli scrittori posteriori né impegnato giuridicamente gli Enti depositari della prerogativa di utilizzare le civiche insegne, visto che nei documenti novecenteschi esse nella raffigurazione subiscono varie modifiche, mai comunque tali da intaccare incisivamente  il secolare schema, tranne che nel periodo che va dal 1933 al 1944. In questi anni, difatti, con R.D. 24 ottobre 1933 n.1440 è previsto l’inserimento nello stemma civico del "capo del littorio", cioè, in termini araldici, di "una pezza onorevole a larga fascia che occupa la terza parte superiore dello scudo" volta a simboleggiare l’unione degli enti territoriali con il regime fascista. Era di rosso (porpora) al fascio littorio d’oro, circondato da due rami di quercia e di alloro, allacciati da un nastro coi colori i nazionali e suscitò ironica polemica nel Falautano, che in uno scritto inedito del 1941, conservato tra le sue carte custodite nella Biblioteca Comunale di cui era direttore, sfoga la sua amarezza di studioso competente e di cittadino orgoglioso, al pari dei suoi conterranei d’ogni epoca, della storia e delle tradizioni locali, esprimendosi con  questo tono risentito:
"In questi ultimi anni lo stemma è stato alterato e mutilato sconciamente, dietro approvazione della Consulta araldica, e ciò per la strana idea del Podestà di allora di porre il fascio littorio su la testa dell’aquila bicipite invece della corona che vi era stata sempre fin dall’origine.
Per giunta la iscrizione dello stemma è stata alterata; invece di Inexpugnabilis Urbis Ennae nello stemma fascista si legge Enna Inexpugnabilis Urbs. Alterare l’iscrizione che nacque con lo stemma e che ha figurato nei più importanti documenti locali, fra cui il più autorevole il cennato Codice manoscritto dei privilegi e consuetudini è stata una strana presunzione.
L’iscrizione originaria Inexpugnabilis Urbis Ennae traducesi: Questo stemma (si sottintende, coi simboli che lo costituiscono) rappresenta o, meglio, è la inespugnabile città di Enna, ed ha un significato ampio, bello e determinato dal genitivo suggestivo Ennae; mentre la epigrafe fascista Enna Urbs Inexpugnabilis, Enna città inespugnabile, ha un significato assoluto, indeterminativo.
Nell’insieme le modifiche fasciste sono state uno sconcio estetico ed un’offesa alla storia locale: due belle cose!"
.
Gli eventi storici provvidero ben presto a lenire il dolore del suo amor patrio ferito giacchè proprio da lì a qualche anno, dopo la caduta di Mussolini, il "capo del littorio" fu abolito con Decreto Legislativo Luogotenenziale del 26 ottobre 1944 N. 313.
Anche a seguito di queste variazioni e per la consapevolezza che i vari autori
nell’illustrare lo stemma di Enna non avevano fatto ricorso ad un linguaggio rigorosamente araldico, dando origine, con le loro descrizioni improprie, approssimative e imprecise, a manifeste divergenze nella sua blasonatura, il barone Francesco Militello di Castagna, sindaco di Enna dal dicembre 1943 al marzo 1945, si prodiga per ottenere il riconoscimento dello Stemma e del Gonfalone Civico e la iscrizione del Comune nel Libro Araldico degli Enti Morali. Il Decreto di Conessione porta la data del 18 gennaio 1945 e in esso lo Stemma di Enna trova finalmente una sorta di consacrazione ufficiale attraverso una redazione  diligente, inequivocabile e definitiva. Il testo della blasonatura è così riportato da Enrico Sinicropi nel suo volume Enna nella storia, nell’arte e nella vita edito nel 1958:


"Di verde, il castello con tre torri merlate alla ghibellina, quella di mezzo cimata da tre spighe di frumento; il tutto d’oro. Lo scudo, accollato all’aquila bicipite, di nero con corona ducale, che posa  ed abbraccia ambo le teste e col volo abbassato di nero, membrata d’oro, linguata di rosso". Motto: "Urbs Inexpugnabilis Henna". Il tutto in scudo sannitico di rosso. Ornamenti esteriori di Città".

Il Sinicropi non spiega perché il legislatore nel decidere questa blasonatura ha trascurato alcuni elementi araldici presenti nelle raffigurazioni e descrizioni storiche, anche se non tutte sempre tra loro concordi, e ne ha modificato vistosamente altri,  ma ci offre invece una breve spiegazione di quelli adottati  commentando:

"Nello Stemma, la corona e l’aquila bicipite sono il simbolo della grandezza imperiale. Le torri ricordano la "Fortezza" Henna oppidum (non il castello di Lombardia). Le spighe si riconnettono al Mito di Cerere, la quale scoperse, per la prima, il frumento, ne dettò le leggi della coltivazione e dell’uso e le affidò al figliuolo Triptolemo per la diffusione in tutto il mondo. La fettuccia con la dicitura "Urbs inexpugnabilis Henna" riporta una espressione dell’Imperatore Federico II di Svevia".

E così prosegue:

"Per questo sembrami chiara illazione che lo Stemma della Città di Enna sia di origine medioevale e sia stato elaborato alla corte del Gran Federico".
Al suo parere, da tanti condiviso, si accosterà nel 1996 pure Carmelo Severino nel suo volume Enna, la città al centro quando ci avverte che lo Stemma di Enna
"con molta probabilità deve essere stato definito ai tempi di Federico II di Svevia per la presenza in esso dell’aquila bicipite – che esprime degnamente i suoi topoi caratteristici attraverso simboli in cui la città si identifica: il castello con le torri dell’urbs inexpugnabilis e le spighe del grano del culto di Demetra. "inquartati in uno scudo, che quale medaglione di decorazione si attacca al petto di un’aquila bicipite, coronata dal gran serto imperiale che posa ed abbraccia ambo le teste", esaltati, cioè, dalla grandezza imperiale, rappresentata dall’aquila con due teste coronate. Il libro dei Privilegi della città, cominciato negli anni a cavallo tra sedicesimo e diciassettesimo secolo, porta, rappresentato nel frontespizio, tale stemma che ancora oggi, per un decreto del 1945, continua
a rappresentare il blasone di Enna nella ufficialità araldica del suo ruolo di città" .
Ufficialità araldica che è stata confermata, in attuazione degli art. 6 del D.lgs. 267 del 18 agosto 2000 (noto come Testo Unico Enti Locali), dallo Statuto Comunale approvato dal Consiglio Comunale con delibera n. 98 del 27 settembre  2004, pubblicata nella GURS del 17 dicembre 2004, Supplemento Straordinario n.54.
In esso, oltre recepirsi la disposizione relativa al distintivo del Sindaco costituito da "la fascia tricolore con lo Stemma della Repubblica e lo Stemma del Comune, da portarsi a tracolla",  l’art.8 è dedicato appunto a questo Stemma, di cui, per quello ennese, si conferma la blasonatura definita nel 1945, senza accennare agli "ornamenti esteriori di Città", forse perché ovvi in quanto da decenni stabiliti da disposizioni legislative identici per  ogni Comune o Città. Precisamente di essi uno è costituito dalla raffigurazione di una corona, tuttora vigente, riportata nell’art.42 del Regolamento tecnico araldico della Consulta Araldica del Regno d’Italia, approvato col il R.D. 13 aprile 1905 n. 234, confluito negli artt. 96 e 97 dell’attuale operante Regolamento approvato con il R.D. 7 giugno 1943 n.652 che trattano la Corona di Città e quella di Comune, esprimendosi per la prima in questi termini:

" La corona di Città (a meno di concessione speciale) è turrita, formata da un cerchio d’oro, aperto da otto pusterle (cinque visibili) con due cordonate a muro sui margini, sostenente otto torri (cinque visibili) riunite da cortine di muro, il tutto d’oro e murato di nero".

L’altro elemento, previsto dall’art. 67 dello stesso decreto, adorna lo scudo a cui si riferisce con la raffigurazione, invariabile tranne rare eccezioni, di due rami, uno di quercia con ghiande d’oro e l’altro di alloro con bacche d’oro, che si incrociano ( e perciò definiti "decussati"), sotto la punta dello scudo, dopo averlo circondato, e dove sono annodati con un nastro con i colori nazionali. Questo ornamento non ha mero valore decorativo ma assume  rilevanza particolare perché svolge il compito, con la sua presenza obbligatoria, di fornire a chiunque la certezza di trovarsi di fronte ad uno stemma territoriale.

Lo Statuto Comunale ennese approvato nel 2004 allo stesso art. 8 fa menzione
del Gonfalone cittadino, del quale, premesso che può essere esibito  "nelle cerimonie e nelle altre pubbliche ricorrenze accompagnato dal Sindaco" se ne descrive la foggia che è quella autorizzata con il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri in data 18 gennaio 1945", descritta  come appresso:
"Drappo di colore verde riccamente ornato di ricami d’oro, caricato dello stemma sopra descritto, con l’iscrizione centrata in oro ‘CITTÀ DI ENNA’. Le parti di metallo ed i cordoni saranno argentati. L’asta verticale sarà ricoperta di velluto verde con bullette dorate poste a spirale. Nella freccia sarà rappresentato lo stemma della città e sul gambo inciso il nome. Cravatta e nastri tricolori dai colori nazionali frangiati d’oro".
Lo stemma di Enna, come accade per altre realtà comunali, raramente oggi è raffigurato, con la stessa frequenza di una volta, su artistici manufatti ma appare con maggiore assiduità su manifesti, volantini, libri, cataloghi…, spesso non raffigurato correttamente né dal punto di vista legislativo né da quello araldico, ma interpretato a volte con libertà innovative che lo banalizzano, quasi declassandolo, certo involontariamente, a semplice "logo" pubblicitario. Queste novità, per quanto decorative e magari fantasiosamente gradevoli, nuocciono alla sua nobiltà e lo defraudono, per giunta araldicamente deturpandolo, della lunga storia che racchiude in sé, simbolico scrigno delle glorie e dell’identità cittadine, tenacemente difese dai nostri avi, meritevoli anche per questo di rispettosa emulazione.

Rocco Lombardo





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